Die in Haiti
Quando sali la rampa e varchi l'ingresso dell'obitorio non pensi di potercela fare. Eppure c'è gente che lo fa tutte le settimane. L'odore della morte è lì che ti salta addosso quando le celle frigorifero, non refrigerate, sono ancora chiuse. Poi ti guardi intorno e nella penombra vedi un corpo a terra, è coperto da un lenzuolo, ma non del tutto, la sua gamba disidratata ti fa capire che è morto di colera. Di cadaveri fuori ce ne sono altri due, uno su una barella e l'altro, anche lui a terra, a sinistra. Ma per loro la fine non è arrivata per mano dell'epidemia. Siamo all'ospedale universitario di Port-au-Prince, a un centinaio di metri in linea d'aria dal palazzo presidenziale che, nonostante si stato piegato dalla forza del terremoto del 12 gennaio 2010 sovrasta ancora il centro della città.
Qui ha inizio la parte più difficile dell'opera missionaria di padre Richard Frechette, prete e medico americano: donare un funerale ai corpi senza speranza di Haiti. Ordinato sacerdote nel 1979 presso il monastero dei passionisti a New York, il sacerdote fa parte della Nph (Nuestros Pequenos Hermanos), organizzazione nata nel 1954, attiva nei Caraibi, nell'america centrale e rappresentata in Italia dalla fondazione Francesca Rava dal 2000.
Il suo è l'ultimo gesto di un'umanità sconosciuta da queste parti, dove chi finisce a La Morgue è talmente povero da non avere nemmeno diritto ad una degna sepoltura perché, come dice lo stesso sacerdote: “Qui la disperazione non ti abbandona mai, neanche da morto”.
Nel frattempo, lungo quel corridoio stretto e asfittico, i ragazzi di padre Rick, qui è lo chiamano così, si preparano. Indossano tute bianche usa e getta, guanti in lattice e si lavano la faccia con una bottiglia di Barbancourt, il rhum haitiano famoso nel mondo. Qui dentro si fa qualsiasi cosa per mascherare l'odore. E allora saltano fuori sigari e sigarette, con il fumo che inizia a confondere moderatamente l'olfatto e a creare un gioco di luci riflettendo il bagliore che entra dall'ingresso, lontano una ventina di metri.
Quando l'inserviente dell'obitorio apre la prima cella tutto si amplifica. L'odore della morte ti circonda e si aggrappa ai vestiti. Ma non è ancora finita. Perché dentro quella cella ci guardi e quando vedi quella montagna di cadaveri pensi a quanta ragione abbia padre Rick. I corpi sono ammucchiati l'uno sopra l'altro senza più nemmeno un briciolo di dignità. Questa è Haiti e questo, forse, è il modo per capirne meglio l'assurdità.
Di sicuro questo è il modo per capire padre Rick, che a guardarlo sembra un marine e a sentirlo ti tocca il cuore: “Perché faccio questo è semplice. Da noi in occidente c'è rispetto per i nostri morti, nessuno di noi vorrebbe che un caro defunto fosse trattato come immondizia. Qui però c'è un livello di povertà incredibile e per molti è impossibile avere un funerale. Io cerco solo di dare una degna sepoltura a quanta più gente possibile, proprio perché non sia trattata come spazzatura”.
Questa storia si ripete ogni giovedì mattina, in periodi normali, perché invece: “A volte riesco a farlo due volte la settimana e a Natale cerco di offrire il funerale a tutti, perché tutti i corpi possano arrivare a Dio e perché non posso immaginare un Natale con gente abbandonata così. E allora moltiplico gli sforzi e in qualche giorno riesco a celebrare il funerale a centinaia di persone”.
L'inserviente, vestito con jeans, stivali in gomma e casacca verde chirurgo, sale sulla montagna di cadaveri e inizia a guardarsi intorno, deve scegliere i 29 corpi fortunati che oggi saranno benedetti e sepolti. E nella cella, è evidente, ce ne sono molti di più. Fuori, lungo il corridoio, si iniziano a sistemare i sacchi in tela. Una volta erano casse di cartone, ma si sfaldavano. Adesso no, sono di una stoffa sufficientemente resistente e sono persino dipinti con simboli religiosi, tutto rigorosamente made in Haiti.
Esce il primo cadavere, è di un ragazzo, dire di cosa sia morto è difficile, lo si adagia nel primo sacco, lo si ricompone, e gli s'incrociano le mani sopra un rosario. Padre Rick lo benedice prima che il sacco venga chiuso. Come una catena industriale il corpo viene fatto scorrere e infilato in un altro sacco prima di essere preso e caricato sul camion. I meccanismi sono oliati, tutto scorre in un'atmosfera surreale.
Al comparire del primo cadavere parte un coro incessante di inni in lingua francese dedicati soprattutto a Notre Dame. Chi smette di cantare lo fa solo per due motivi: lacrime e conati. Per un'esperienza alla quale è impossibile abituarsi veramente. Il coro si ammutolisce una sola volta, d'improvviso. Il silenzio diventa tombale. Altri due inservienti dell'ospedale arrivano con una sorta di carriola. Sopra c'è il corpo di una ragazza. Viene adagiato a terra, lungo un lato del corridoio, e i ragazzi non possono fa altro che guardarla sconsolati: Dal loro volto traspare solo tristezza e rassegnazione. E anche lei non è morta di colera.
Dopo poco più di un'ora c'è l'illusione di aver finito, ma i corpi inumati sono solo quindici corpi. C'è l'altra cella da visitare, e tutto si ripete per altre quattordici drammatiche volte. Uomini, donne e ragazzini per ogni genere di fine. Chi è morto ammazzato, cosa tutt'altro che rara a Port-au-Prince, chi travolto da auto o camion, chi per vecchiaia e chi per malattia. Ma ora, più che altro è il colera a decimare la popolazione.
Una volta che anche l'ultimo corpo è caricato sul camion non si perde tempo, il sole inizia a scaldare troppo. Ci si toglie la tuta, ci si disinfetta e si beve l'ennesimo sorso di rhum. Poi via, su un mezzo i corpi, sull'altro, gemello, gli aiutanti. Padre Rick invece è in moto, come passeggero però. Il campo che accoglierà i defunti è qualche chilometro fuori città, e per arrivarci bisogna attraversarla quasi tutta. Ed è lungo il tragitto che Haiti risponde ai suoi drammi. Il percorso è fatto di un incrociarsi di sguardi. Milioni di occhi. Gli haitiani reagiscono in modi diversi. Qualcuno ha lo sguardo terrorizzato. Qualcun altro cerca di non guardare, come se stesse cercando di fuggire, altri invece ignorano, forse abituati alla morte violenta. Una morte che da sempre fa parte della vita haitiana, costretta nei secoli a subire le violenze di continue guerre civili, dittature e cataclismi.
D'improvviso ci si rende conto che quei due camion possono rappresentare qualcosa di diverso per Port-au-Prince. Possono essere visti come i carri dei monatti o come i furgoni dei rabbini della Hevrat Kadisha (Santa Società che si occupa di seppellire i morti secondo il rigido rituale ebraico). Dove i primi, come racconta anche Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi, avevano il compito di togliere i cadaveri vittime della peste dalle strade, mentre i secondi, ancora oggi, si occupano di recuperare ogni piccolo frammento dei corpi martoriati e carbonizzati dalle esplosioni negli attentati in Israele. Ma i paragoni con i monatti sono ingenerosi, visto che spesso erano considerati persone spregevoli e prive di scrupoli, e quelli con i rabbini della Hevrat Kadisha forzati, perché quello che fa padre Rick non è dettato da nessun rituale. Anzi, a ben vedere sarebbe molto più facile e sicuro, benedire i corpi e poi incenerirli. Ma questo ad Haiti è praticamente impossibile, perché andrebbe contro il credo voodoo e qui, che piaccia o no, è la vera religione di stato.
Lasciare Port-au-Prince è qualcosa di strano, sembra quasi di abbandonare l'inferno. In campagna l'atmosfera che si respira è diversa, più tranquilla. La povertà è lì, la puoi toccare con mano, ma è diversa rispetto a quella delle baraccopoli della capitale. Riuscire a trovare un campo dove seppellire i corpi non è stato facile. In alcuni siti si è dovuto smettere, soprattutto perché la paura del contagio da colera aveva fatto salire il malcontento di chi abita nei paraggi. In questo, invece, un po' più isolato, tutto sembra molto più tranquillo.
La capitale è ormai ad una ventina di chilometri quando i camion svoltano in una strada sterrata. Al caldo, al sole e alla stanchezza si aggiunge il fastidio della polvere. In un paio di punti il percorso si stringe, e al secondo, dal camion dei volontari si leva un grido. Uno sguardo veloce non riesce a mettere a fuoco quello che è successo. Solo una macchia bianca. Si pensa al peggio. Il camion che trasportava i defunti che stava davanti si è ribaltato. Pochi metri ancora e si scopre che non è così, il sollievo è grande, e ancor di più lo diventa quando si capisce che a ribaltarsi è un altro furgone. Per fortuna senza gravi danni e, soprattutto, senza che nessuno si sia fatto male. Il cammino può proseguire fin a quando non si giunge a destinazione. Qui alcuni uomini del villaggio hanno già preparato le ventinove fosse. Nove fila da tre e una da due.
Si iniziano a scaricare i corpi e a porli direttamente e con estrema delicatezza nella loro tomba. Padre Rick nel frattempo ha indossato la tunica e iniziato a benedire ogni singola fossa. Passa tra le fila con l'incenso mentre ai canti dell'obitorio si è sostituita la musica di una piccola banda di fiati che intona inni religiosi a ritmo di gospel dal bordo del campo. Il sole ormai è quello di mezzogiorno, i morti sono tutti a riposo e padre Rick inizia una breve ma intensa cerimonia funebre. Il silenzio è rotto solo dal crepitio di alcuni arbusti che bruciano. Tra i ragazzi, alcuni sono volontari europei e americani, altri sono locali che percepiscono una piccola paga, c'è chi versa le ultime lacrime. Anche abituarsi ad una distesa di tombe è difficile. Anche padre Rick è commosso, ma non lo da a vedere, un po' perché protetto dagli occhiali da sole: “Per me tutto questo è una cosa terribile, farlo mi costa tanta fatica e energia, ogni volta”.
Il rito finisce, i ragazzi intonano un coro finale poi via. Mentre gli uomini del villaggio iniziano a coprire di terra i corpi si risale sul camion e si torna in città. Si fa tappa in uno store a comprare qualcosa da bere e mangiare, giusto per dimenticare in fretta l'odore della morte e poi di nuovo al Saint Damien della fondazione Rava, perché per padre Rick c'è ancora una mezza giornata da dedicare ai vivi: “Io non perdo le speranze, perché quando si riuscirà a cambiare qualcosa, ad eliminare la corruzione e ad operare con intelligenza con l'aiuto di tutti, allora per Haiti vedo un futuro luminoso”.
Fabio Gibellino
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