NUBA ALLA SVOLTA


La pace non è mai stata così vicina. Sui monti Nuba, nel cuore del Sudan, la aspettano da almeno vent'anni. Da quando questo popolo di quattro milioni e mezzo di persone ha cominciato a lottare per sopravvivere. Non solo alla "pulizia etnica" scatenata dal governo di Kartoum, alla deportazione dei bambini, al furto della terra, agli stupri, ma anche all'azzeramento della loro identità da parte di un regime islamico che per gli Stati Uniti di George W. Bush appartiene all'asse del male. Sui Nuba vive uno degli ultimi miti d'Africa, del quale l'Occidente conosce una sola immagine: guerrieri dal corpo dipinto e donne di magnifico nudo orgoglio. La guerra ha cambiato quasi tutto nelle loro vite, ma i nuba sono riusciti a rimanere ciò che sanno d'essere da sempre: africani. Hanno combattuto per questo e ora aspettano la firma della pace al tavolo delle trattative in Kenya, data per imminente a dicembre ma di continuo rinviata. Profetico, Abdul Aziz Adam Al-Hill, 54 anni, comandante e governatore della regione Nuba per lo Splm/Spla, la formazione politico-militare indipendentista insediata nel Sud del Sudan, già a gennaio diceva: «Abbiamo preparato il nostro popolo per la pace: il processo è irreversibile». Quel giorno Aziz era nel suo quartier generale, una capanna di Lwere, seduto sulla sua poltrona, appartenuta al pilota di un aereo Antonov distrutto sulla pista di Kauda, e aveva i gomiti appoggiati sulla scrivania, un tavolo da giardino in plastica bianca con tanto di foro per l'ombrellone.

Per arrivare nelle terre collinose dei Nuba bisogna aggirare molti ostacoli, i permessi ufficiali sono inesistenti, anche le organizzazioni umanitarie si muovono senza protezione. Qui vive gente troppo a lungo dimenticata, coinvolta in una guerra colpevolmente dimenticata. A pagare le conseguenze più dure del conflitto, che in tutto il Sudan ha tolto la vita a due milioni di persone, sono come sempre le donne e i bambini. E a essere donna, tra i Nuba, si comincia presto, più o meno a quattordici anni, quando si è pronte per le nozze. Combinate. «Il primo matrimonio di solito è organizzato dai genitori quando i figli sono ancora piccoli. Poi a volte ne arrivano altri per motivi diversi», spiega Samira, 40 anni, nella sua capanna di Kerker, un piccolo villaggio. Anche se rara, qui vige la poligamia. Ora per questioni di prestigio e lavoro, ora per l'applicazione del levirato: vedove in sposa al cognato, così da garantire la discendenza al fratello defunto. E di donne che per colpa della guerra hanno perso il marito ce ne sono tante. Mogli-ragazzine che diventano madri, di sei figli in media, ma spesso anche dieci e più.

«I mariti prendono tutte le decisioni, a noi tocca il lavoro in casa e nelle terre», spiega Nima, 42 anni, anche lei di Kerker. Un patriarcato diffuso in gran parte delle etnie - in tutto una cinquantina - anche se gli uomini hanno via via perso d'importanza nella vita di queste comunità: molti sono caduti in battaglia, altri sono comunque lontani al fronte o prestano servizio in qualche associazione umanitaria. Sono le donne che permettono alla società e alla famiglia di sopravvivere. Una realtà destinata in futuro a produrre nuovi cambiamenti. Già con la tregua, arrivata nell’ottobre del 2002, ci sono stati i primi segni di emancipazione. Per esempio la scuola, ora aperta anche alle ragazze che «sono più brave dei maschi», dice sicura Mary, maestra keniana della scuola elementare di Kerker.

Uno dei grandi nodi della guerra è di origine etnica. Nel sud c'è l'Africa, nera cattolico-animista, mentre al nord c'è un regime islamico. «Noi nuba siamo Africa. Tra noi ci sono culture distinte: abbiamo più di ottanta diverse religioni e credenze, anche all'interno di una stessa famiglia, ma tutte convivono pacificamente. È molto diverso dall'Islam integralista di Khartoum, dove è in vigore la sharìa, qui c'è tolleranza religiosa», aveva precisato il governatore Aziz. E a Kerker infatti, chiesa e moschea, entrambe capanne, sono a duecento metri di distanza tra loro. Chi davvero impone i ritmi di vita, sui Nuba, è il sole. Qui non c'è energia elettrica e senza luce non si può fare quasi nulla. «Spesso ci si alza anche prima dell'alba, quando la luna è piena, perché si vede come di giorno» racconta Nima. Senza elettrodomestici, certo, ma pure senza rubinetti. Procurarsi l'acqua, già rara, è il più gravoso dei compiti: «Ce n'è poca e spesso non è buona» sottolinea Mary, la maestra «per fortuna stanno costruendo una diga qui vicino. Però ci vorrà del tempo». In attesa, non resta che camminare per chilometri verso un pozzo o un ruscello, il più delle volte contaminati: acqua da bollire se si hanno i mezzi, altrimenti il rischio di una malattia è grande. Il prezioso carico è in un contenitore da una ventina di litri, che le donne trasportano sulla testa, più raramente sulla schiena, con un lembo di stoffa ben saldo tra le mani e passato sulle spalle come una bretella. Poi ci sono i campi da coltivare. Sorgo, arachidi e cipolle oltre qualche frutto da raccogliere. «Poche fortunate hanno i campi fuori dalla capanna, ma le altre devono camminare anche per due ore prima di arrivarci» continua Mary. Per loro fortuna, almeno capre e galline si arrangiano da sole, tutt'al più sono allevate dai bambini più grandi. Mentre qualcuna lavora la terra qualcun'altra sta al mercato, e spesso sono le giovani figlie che vi portano il raccolto da vendere. Soltanto il tramonto ferma i ritmi di queste giornate sfibranti, che rubano presto la bellezza. Samira, Nima, di un villaggio qualunque, perennemente fiere e silenziose, chiudono la tenda della loro capanna al calar della luce, con la speranza che il nuovo Sudan sia migliore di quello vecchio.

                                                                                                     Fabio Gibellino

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